Fiorella BOTTEON, Ferdinando Ferracini. Un patriota veneto nel Risorgimento italiano. Istituto per la storia della Resistenza e della società contemporanea della Marca trevigiana, Treviso, 2018, pp. 322, € 20

Ferdinando Ferracini è stato un patriota veneto del Risorgimento che partecipò a tutte le Guerre d’Indipendenza, uno dei tanti che con il loro impegno contribuirono alla nascita di una Patria libera e indipendente. Schivo ad apparire, definito da un amico “un giovine di cuore italiano di modi soavi e gentili”, dopo i moti del ‘48 fuggì esule all’estero e subì anche i rigori del duro carcere di Mantova nella congiura dei Martiri di Belfiore. Nacque da una famiglia della media borghesia veneziana: i Ferracini erano dei “nuovi” che pur in un quadro caratterizzato dalle difficoltà di una città da tempo votata a una lunga decadenza, avevano trovato spazi di crescita e di arricchimento. Il padre era stato protocollista presso l’Archivio Generale. Ferdinando iniziò a prestare servizio presso l’amministrazione austriaca nel 1836 (otterrà la laurea in legge più tardi, nel 1859). Nella rivoluzione del 1848 lo troviamo impegnato nell’organizzazione dell’esercito patriottico, ma il noto epilogo di quella stagione lo portò all’esilio in Francia e in Inghilterra. Rientrò a Venezia solo nel 1850, in una città dove gli austriaci controllavano tutto e dove non gli venne data la possibilità di riprendere la sua carriera giudiziaria. Si dedicò in quel periodo all’attività giornalistica, soprattutto sulle pagine del “Lombardo Veneto” che aveva posizioni patriottiche moderate. Dopo gli eventi rivoluzionari lo stato d’assedio venne mantenuto per anni e il vero controllo sulla società venne fatto dai militari austriaci. Il flusso della storia non poteva però essere fermato e la spinta verso una prospettiva unitaria nazionale era nei fatti oltre che nelle idee. Ferracini venne arrestato di notte nel 1852 e trasferito in carcere a Mantova. Nel processo ai cosiddetti “martiri di Belfiore” dove trovarono la condanna a morte cinque patrioti, il suo nome emerge in modo saltuario, il che fa emergere la sua posizione marginale nella vicenda. Inizialmente condannato a cinque anni, Ferracini rientrò nell’amnistia voluta dagli austriaci e venne subito liberato nel 1853. Nel 1858 diventò uno dei tre presidenti del comitato veneziano della Società Nazionale, probabilmente per dare sostegno al progetto unitario a fianco del Piemonte sabaudo. Nel 1858, come dieci anni prima, riprese la via dell’esilio, questa volta a Torino, dove accanto all’esercito regolare si stava formando quello dei volontari. Ferracini prese contatto con la stampa filosabauda per scrivere delle condizioni del suo Veneto. Con lo scoppio della seconda guerra di indipendenza e delle prime vittorie venne nominato insieme ad altri, Commissario di sua Maestà presso il Generale Garibaldi. Con le battaglie di S. Martino e Solferino la vittoria sembrava aprire la possibilità di forzare il quadrilatero per entrare in Veneto, ma l’armistizio firmato a Villafranca consegnò a Vittorio Emanuele la Lombardia ma non il Veneto. Grande fu la delusione tra i patrioti e i moderati, con lo stesso Cavour dimissionario dalla carica di Primo ministro. Terminata la guerra, Cavour in una lettera ringraziava Ferracini dichiarandolo “benemerito della causa nazionale e della Casa Savoia”. Lo troviamo comunque nuovamente attivo su un nuovo fronte, quello di presidente di uno dei vari comitati – nel suo caso quello di Modena- che dovevano organizzare la numerosa presenza di emigrati veneti. Notevoli i problemi da affrontare, soprattutto materiali considerando i bassi contributi dello stato sabaudo per il loro sostentamento. Alla vigilia del 1860, Ferracini pressò affinché gli uomini del suo comitato potessero raggiungere gli altri volontari meridionali. L’incarico politico e organizzativo gli stava stretto: voleva essere con coloro che combattevano a Sud. Nell’agosto 1860 lo troviamo aggregato alla brigata dei “Cacciatori di Bologna” formata da quattro battaglioni, di cui uno da 271 uomini affidato proprio al maggiore Ferraracini. Giunse in tempo per partecipare alla più importante battaglia della spedizione, quella del Volturno. Con la sconfitta borbonica, paradossalmente per le autorità piemontesi e i vertici dell’esercito, i principali nemici del costituendo nuovo Regno erano i patrioti stessi, repubblicani in buona parte e democratici. Sciogliere l’esercito garibaldino era una priorità assoluta, in quanto esso costituiva una forza armata numerosa e agguerrita. La prospettiva di essere arruolati nell’esercito regolare dispiaceva però ai più, che preferivano combattere per il Generale Garibaldi. Ferracini, che ammirava il Generale, era ormai proiettato in una dimensione politica moderata e filo cavouriana, tant’è che venne arruolato nell’esercito regolare del Regno d’Italia. Fece questa scelta sia perché tornando in Veneto sarebbe stato arrestato, sia per ragioni economiche avendo gli austriaci confiscato tutte le sue terre. Nell’aprile 1862 fu confermato con Regio Decreto, maggiore del 20° reggimento fanteria, e inizialmente fu inviato presso il segretariato generale del Ministero della guerra. Al Ministero l’impegno terminò nel 1863, quando venne mandato prima a Messina poi in Molise nella campagna di repressione del brigantaggio, un’altra brutta e drammatica faccia del Risorgimento. La popolazione rurale infatti si schierava spesso con briganti e con gli ex militari borbonici, perché le condizioni sociali con il nuovo governo anziché migliorare, erano peggiorate. Per Ferracini lo sconforto di andare a combattere una guerra che poco riguardava gli ideali risorgimentali e patriottici, era comprensibile. Nel 1866 partecipò alla battaglia di Custoza ma il suo battaglione venne schierato nelle retrovie. Nel 1867 si candidò per il collegio di Treviso alle elezioni per la Camera dei Deputati, e venne eletto tra le fila della Sinistra storica nella IX legislatura. Stava nascendo l’Italia liberale, caratterizzata da una legge censitaria assai restrittiva. La componente democratica e popolare risorgimentale era ormai posta ai margini e il potere reale era riconsegnato alle elite locali che già lo avevano in precedenza. La permanenza di Ferracini a Firenze durò un paio di mesi perché nel febbraio dello stesso anno fu sciolta la Camera. Si ripresentò alle successive elezioni ma non venne rieletto: forse troppo patriota per essere accettato dalle locali classi dirigenti tendenzialmente trasformistiche. Nonostante la delusione, fino all’ultimo continuò il suo impegno pubblico prima come consigliere comunale a Venezia, e poi dal 1874 al 1878 come sindaco di Codognè, dove esercitò anche come giudice conciliatore date le sue competenze giuridiche. Morì nella sua villa al centro del paese nel 1882. Nel 1867 venne definito: “giuridico nella università e nei tribunali, addottrinato in istudi profondi di generale interesse, incaricato di importanti missioni politiche ad amministrative, soldato valoroso della indipendenza italiana” ed è proprio questo che fu Ferdinando Ferracini: un grande uomo dell’Ottocento Italiano.

Alessio Pizziconi